domenica, Maggio 19, 2024
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Quell’urlo dal Trentino a Miami per chiedere libertà per Chico Forti

Intervista di Beatrice Nencha

L’ultima foto insieme a mamma Maria e ai suoi zii risale a dodici anni fa, ovvero a febbraio del 2008. Enrico (Chico) Forti è nel mezzo e sembra accennare un sorriso, nonostante la polaroid ha come sfondo un carcere di massima sicurezza di Miami. Un carcere bunker dove lui, Chico per gli amici, è recluso da vent’anni, con una sentenza che lo ha condannato all’ergastolo. Senza nemmeno la possibilità di beneficiare di uno sconto di pena per buona condotta. Per la giustizia americana il suo destino è segnato, senza possibilità di appello: fine pena mai. Per questo sua mamma, a 82 anni compiuti, aveva deciso di volare a Miami a tutti i costi, con il timore di riabbracciare per l’ultima volta il suo Chico.

Tutti conosciamo ormai la vicenda giudiziaria di Enrico Forti. Ex campione di wind-surf e catamarano, film-maker e produttore di documentari, ritenuto colpevole di omicidio – dopo un processo durato 25 giorni in cui non è mai stato sentito – da una giuria popolare della Dade County di Miami. Accusato “per aver personalmente e/o con altra persona o persone allo stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamente la morte di Dale Pike”.

Successivamente, valutando meticolosamente una per una tutte le accuse, si scoprì una serie infinita di manomissioni delle “prove circostanziali”. Chiunque volesse documentarsi, troverà in libreria e in Rete tantissimo materiale.

Noi siamo rimasti colpiti da un appello lanciato a Pasqua dallo zio Gianni, uno dei volti ritratti in quella Polaroid.  Dal suo balcone, a Trento, ha invocato il nome di suo nipote. Un urlo che è riecheggiato dal cielo limpido delle sue vallate alle cime delle montagne, dritto in ogni cuore. Non soltanto italiano. Un urlo di speranza e di giustizia. Un urlo che dovrebbe scuotere le nostre coscienze e quelle del governo italiano, che non può consentire che un suo cittadino, che si è sempre dichiarato innocente, resti a marcire in un penitenziario straniero dove ogni suo diritto, persino quello di far riaprire il suo caso in presenza di nuove prove, sia totalmente precluso o ignorato. Ci appelliamo a tutti i lettori, per ricondividere l’appello “Chico Free”.

L’intervista allo zio di Chico Forti

  • Signor Forti, come vi siete mossi voi famigliari per tentare di assicurare giustizia nella incredibile vicenda legale che ha colpito Chico, sottraendogli la libertà da ormai un ventennio?

“E’ una storia lunga quella di Chico. Sin dall’inizio abbiamo tentato tutte le vie possibili e immaginabili, legalmente, per cercare di sbloccare la situazione attraverso la richiesta di una revisione del processo. Quando alla sesta volta ci hanno rifiutato questo tipo di mozione, dopo aver allegato ogni volta delle prove inconfutabili della estraneità di Chico al delitto, abbiamo capito che mai l’America, e la Florida in particolare, concederà la revisione di un processo, per giusto o sbagliato che sia. La contestazione della decisione di una giuria o del verdetto di un giudice, equivarrebbe al ribaltamento di tutto il loro sistema giudiziario.

Purtroppo in America non c’è Appello, a meno che non si portino nuove prove. Queste prove noi le abbiamo portate decine di volte. Abbiamo riempito queste sei mozioni di documenti, ma purtroppo la pratica non è mai stata riconsiderata seriamente. Anzi, siccome questo tipo di mozione viene affidata ad un giudice che decide discrezionalmente, se farla riaprire, purtroppo abbiamo sempre trovato dei giudici che dichiaravano che il caso Chico Forti era chiuso”.

  • Quanti giudici avete interpellato nel corso degli anni?

“Abbiamo fatto sei mozioni per la revisione del processo. Tutte rifiutate senza discussione, né opinione. Allora visto che le vie legali in America erano praticamente precluse, abbiamo dovuto ricorrere all’aiuto politico dello Stato italiano. Non so quante volte sono venuto a Roma e ho incontrato almeno 7/8 ministri degli Esteri. Ho tenuto diverse conferenze sia al Senato che alla Camera, e ogni volta si firmava una mozione per l’intervento dello Stato italiano. Intervento che però non si è mai concretizzato, nonostante le tante rassicurazioni fornite a noi famigliari dalle istituzioni incontrate”.

  • Finché, con il governo attuale, è arrivata la disponibilità a un impegno concreto. Avete fiducia, questa volta, in un’azione diplomatica risolutiva?

“L’anno scorso, alla fine di novembre, il ministro Luigi Di Maio, sollecitato in un question time in Parlamento, ha risposto che lo Stato italiano è stato allertato sul caso Chico Forti e intendeva intervenire. Noi avevamo chiesto che venisse formalizzata un’inchiesta ufficiale dello Stato italiano. Il tutto per rivedere il caso di un cittadino recluso ingiustamente negli Stati Uniti. Un caso con prove evidentissime della sua estraneità al delitto a lui ascritto.

In questo caso, per la prima volta il ministro Di Maio, appena  incaricato alla Farnesina, ha offerto la sua disponibilità e l’interessamento del governo a rivedere questo caso. Dopodiché io sono tornato a Roma e ho tenuto un’altra audizione alla Camera, alla presenza del vice presidente del Consiglio dei ministri Riccardo Fraccaro, il quale ha dichiarato ufficialmente che lo Stato italiano intendeva richiedere il trasferimento in patria di Chico Forti perché ogni altra via non era percorribile o era preclusa.

L’unico modo era riportarlo in Italia con il trasferimento da detenuto.

Fraccaro ha dichiarato ufficialmente l’intervento del governo presso il governatore della Florida per riportare a casa Chico. Aveva 39 anni quando è stato arrestato e condannato, già sposato con tre figli che, da allora, non ha mai più rivisto. Il 26 febbraio mi convocano alla Farnesina, alla presenza di Di Maio e di Fraccaro e dei loro staff. Mi dicono che la pratica era avviata. Mi hanno detto che l’ambasciatore di Washington, doveva ufficialmente contattare il governatore della Florida per avviare la pratica per il rientro di Chico in Italia. Da quell’incontro al ministero, stiamo aspettando ancora che questa pratica giunga a buon fine”.

  • Sa se c’è stata, e con quale esito, questa interlocuzione per il tramite dell’ambasciatore?

“Da quanto ci hanno riferito alla Farnesina, la pratica è stata avviata. Purtroppo, poco dopo è scoppiata la pandemia e si è interrotto il discorso. Anche se io ho il contatto diretto sia con l’onorevole Fraccaro che con il ministro Di Maio. Entrambi mi rassicurano sempre che l’iter burocratico si è avviato e sta proseguendo. Ma non conosco la procedura e la tempistica di questo protocollo.

Tutte le volte in cui in passato sono stato a Miami, ho incontrato tutti i consoli: dal primo che ha seguito il caso, passando per tutti i successori, e ognuno mi ha sempre detto che, una volta istruita questa pratica, sarebbe occorso poco tempo per mandarla in porto. Nei primi tempi c’era la condizione che solo se Chico si fosse dichiarato colpevole, si sarebbe potuta avviare la pratica. Invece negli ultimi anni credo che questa condizione sia cambiata e che questa pratica possa essere istruita anche senza”.

  • Chico non si è mai dichiarato colpevole

“Assolutamente. Nel libro scritto con la Bruzzone nel 2012 (“State of Florida vs Enrico Forti. Il grande abbaglio”, Curcu E Genovese – Trento ) abbiamo correlato la vicenda di Chico con almeno cento documenti a sgravio, spiegando dettagliatamente tutte le situazioni, i personaggi, le indagini trascurate, le regole violate. Attraverso un amico che abbiamo casualmente conosciuto a Miami, laureato in giurisprudenza, abbiamo rivisto tutti i 50mila documenti del fascicolo per trovare una sola prova contro Chico Forti, e non l’abbiamo trovata. Pensi che abbiamo citato anche la vicenda della funivia del Cermis, dove due piloti americani hanno ammazzato venti persone e se ne sono potuti andare via dall’Italia, impuniti.

L’incidente è avvenuto il 3 febbraio 1998, proprio prima che imprigionassero Chico. Egli fu arrestato il 20 febbraio ‘98. Davanti a questa ingiustizia, ci siamo interrogati. “Come è possibile che gli americani, colpevoli del disastro sono stati rilasciati senza aver subìto nemmeno un processo? Enrico Forti è stato imprigionato senza una prova forense oggettiva. Tutto sulla base di prove assurde e manipolate dall’accusa. E’ stato condannato a una vita senza condizionale. Il che significa che uscirà solo da morto dal penitenziario. La peggiore delle condanne che si possano comminare a un essere umano”.

  • Come riuscite a mantenere i contatti con Chico?

“Io sono costantemente in contatto con lui, ho cominciato dal giorno della sua condanna. A quel tempo lui era rimasto da solo, perché la compagna che era giovanissima, era tornata nel frattempo a vivere con la madre, alle Hawaii, dove si è rifatta una vita. Prima ci sentivamo telefonicamente con Chico ma con costi proibitivi: per ogni sua telefonata io mi accollavo la chiamata e potevo sentirlo, ma era una spesa folle. Dall’anno scorso siamo riusciti a farlo trasferire in un carcere di bassa sicurezza, chiamiamola così, e può usufruire di un tablet con cui, con un sitema abbastanza complicato, inviamo e riceviamo delle mail in tempo reale. Adesso siamo in contatto in questa maniera”.

  • In quale carcere si trova e quali sono le sue condizioni di detenzione attualmente?

“Da un anno e mezzo è recluso nel South Florida Reception Center. Si tratta di un carcere statale di smistamento, dove in genere i detenuti vengono destinati ad altre aree. Siamo riusciti a farlo stare lì tramite il consolato, perché almeno è sempre nella contea di Miami. La nostra paura era che lo mandassero al di fuori di Miami. Il che sarebbe stato scomodo sia per il console che per chiunque volesse andare a trovarlo. Chico ha un ergastolo a vita, può uscire solo da morto e non è previsto nessuno sconto per buona condotta. Nonostante lui abbia fatto tanti corsi di insegnamento, per cui ha ottenuto anche il diploma con la sua tutor dell’altro carcere (un Certificato di merito, rilasciato dal Dade Correctional Institution a riconoscimento del suo impegno per il reinserimento di altri detenuti, ndr), la sua buona condotta non serve a niente perché il suo ergastolo è senza sconti. I corsi servono solo per tenerlo impegnato”.

Il diploma rilasciato a Chico Forti
  • Chico può ricevere visite in carcere in questo momento e come avvengono i vostri incontri?

“Può ricevere visite ma sono di un numero limitato all’anno. La procedura è molto rigida: bisogna compilare dei moduli, inviare il modulo con gli estremi del biglietto aereo già pagato anche se non sai se ti concederanno la visita, perché devono controllare che tu abbia il biglietto di andata e ritorno. Inoltre bisogna fare domanda almeno tre settimane o anche un mese prima della data indicata.

Adesso le visite sono tutte sospese per il coronavirus, che ha imposto altre restrizioni: poche uscite all’aria e con turni per i detenuti, oltre alla misurazione quotidiana della febbre. Anche il personale è ridotto, per evitare di portare in carcere il contagio, e quindi ci sono ulteriori restrizioni a quelle già gravose di prima. Comunque lui è uno che sopravvive a queste cose, anche se dovesse dormire sul pavimento, lui si adatta a tutto. Purtroppo in questo momento, non può fare chiamate neanche alla madre. Nessuna chiamata internazionale, solo una mail alla settimana, tanto per farle sapere che sta bene. La mamma oggi ha 92 anni, abita come noi a Trento insieme al fratello di Chico, ed è una donna in gamba, ma sempre con una certa età…”

  • Quando vi siete recati per la prima volta a fargli visita nel penitenziario di Miami, cosa vi ha colpito?

“Nel carcere di massima sicurezza, in cui originariamente recluso, si entrava alle nove di mattina, dopo essere stati in coda per ore. Da lì si usciva verso le due del pomeriggio. Andavo a trovarlo con mia moglie Wilma. Ne uscivamo sfiniti, tanto è dura la detenzione e le regole ferree che usano sia nei riguardi dei visitatori che dei prigionieri. Disposizioni così inumane per un popolo così democratico come quello americano, che lascia perplessi che queste regole vengano definite “di rieducazione”. In realtà sono un annullamento totale della personalità dell’individuo”.

  • Può farci qualche esempio del trattamento che avete sperimentato durante queste visite?

“Intanto bisogna passare una serie di controlli, poi la perquisizione; poi bisogna aspettare che il detenuto esca dalla sua cella verso il parlatorio. A terra ci sono delle orme su cui deve camminare, senza andare né troppo piano né veloce. Infine si entra in una stanza dove il prigioniero viene svestito completamente e perquisito. Lo rivestono e può finalmente entrare al colloquio. Quando ritorna fuori, a fine incontro, deve rifare lo stesso trattamento.

Nel momento in cui si riesce a parlarci, inoltre, viene concesso solo un breve abbraccio e un saluto, e poi bisogna tenere sempre le distanze. Lui non può scrivere, né prendere nota, né lasciare messaggi. Dentro alla sala colloqui non si possono portare telefoni o fogli. Nella sala ci sono delle macchinette dove ci si può procurare qualche alimento, perché quello che gli danno come rancio è immangiabile, però il detenuto non può toccare né soldi né le macchinette. Andavamo a prendere noi delle cibarie per portargliele”.

  • Voi avete ancora speranza, continuerete ad avere speranza anche dopo questi venti anni?

“La nostra unica speranza, adesso, è la commutazione della pena che sta scontando negli Usa con quella che dovrebbe scontare in Italia. Se dovesse rientrare in patria, la pena l’avrebbe già scontata,  giusta o sbagliata che sia. L’ostacolo maggiore è proprio quello di commutare la pena ricevuta negli Stati Uniti con quella che avrebbe dovuto ricevere, per equivalente secondo il nostro diritto, se avesse commesso il reato qui. La nostra volontà è riportarlo in patria. Ormai tutti quelli che hanno seguito la vicenda sanno che Chico Forti è recluso ingiustamente; e che la polizia di Miami lo ha incastrato per motivi estranei al processo stesso.”

Continua: “La nostra speranza è quella di riuscire a portarlo a casa, dove da uomo libero potrà far valere le sue ragioni. Credo che Chico sia uno dei casi unici nella storia: è stato processato e condannato ma né l’accusatore, né il difensore lo hanno mai chiamato alla sbarra a deporre e a far valere le sue ragioni. Quindi siamo noi a sostenerle, da tanti anni, e adesso abbiamo una marea di gente che segue la sua causa. Gente che ha capito che le ragioni di Chico sono più forti delle accuse attribuitegli dal Tribunale.”

  • Qual è la speranza di Chico Forti oggi?

“La sua estrema volontà, visto che non ci sono alternative, è di poter rientrare in Italia a qualsiasi costo. Perché lì nel carcere americano ogni giorno è un giorno terribile. Non solo per la detenzione ma anche per la sua stessa sopravvivenza”.

L’appello di Enrico Montesano sulla questione Forti

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