martedì, Dicembre 3, 2024
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Zen Circus a Sanremo 2019: 20 anni di circo Zen alla corte di Baglioni

Gli Zen Circus sono i grandi vecchi della scena indipendente italiana, talmente vecchi che a breve consacreranno i 20 anni di onoratissima carriera con la raccolta “Vivi si muore 1999 – 2019”. Più di 1000 concerti, un’enormità di chilometri percorsi tra i festival di mezza Italia e oltre, un nome che nell’ambiente è universalmente rispettato per il lavoro “in trincea” e per la profondità dei temi trattati.

Dalla critica sociale anche aspra, asprissima (Andate tutti affanculo, I qualunquisti, Viva, ZIngara) all’analisi della profondità dell’animo umano e dell’ambito familiare (come in tutto Il Fuoco in una stanza, il loro ultimo album e quello più intimo).

C’erano prima di Motta e di Brunori SAS, prima di Mannarino e dei Fast Animals and Slow Kids, prima dei vari Maneskin, Calcutta, Thegiornalisti e chi più ne ha più ne metta. C’erano prima che la musica indipendente diventasse musica indie e spopolasse in radio, attirando finanche le attenzioni di Baglioni.

Insomma, cosa ci faccia il circo Zen sul palco del Festival nazional-popolare per eccellenza, quello del teatro Ariston di Sanremo, dove saranno gli eterni giovani del rock italiano, è un mistero della fede che i fan faticano a spiegarsi tanto quanto il pubblico sanremese faticherà a comprendere loro.

Sul palco di Sanremo arrivano con il brano “L’amore è una dittatura”, che sarà incluso anche nella raccolta in uscita l’8 febbraio: un testo criptico, senza ritornello, molto rock e di certo poco sanremese.

La loro prima esibizione, condita da cupi sbandieratori, è stata battezzata da Twitter con un sincero “chi?!?”, con qualche utente che eppure ci provava a spiegare che dopotutto esiste un mondo oltre la musica e la cultura pop. Scherzando, ma non troppo, Appino&Co. hanno dichiarato che il loro sogno è arrivare ultimi,


«ma mi sa che non ce la faremo e quindi abbiamo abolito proprio l’idea che questa sia una competizione».


Per tentare di capirne qualcosa in più, facciamo un passo (e più) indietro.

Zen Circus chi?

All’anagrafe Andrea Appino, capelluto frontman, chitarrista e un’ottima penna, ha partorito anche due lavori solisti dal sapore di un cantautorato d’altri tempi e con buonissimi riscontri di critica. Classe ’78, pisano – e autore del brano “Pisa merda”, in cui la citta della torre è l’archetipo di pregi e difetti di tanta provincia italiana – incontra sulla sua strada Massimiliano “Ufo” Schiavelli (basso) e Karim Qqru (batteria e anima punk).

E’ il 2005 e il progetto The Zen Circus, inizialmente one man band, si assesta nella formazione principale che vediamo oggi (a cui si aggiunge, solo nel 2016, “il maestro” Pellegrini come seconda chitarra). Cominciano a cantare in italiano e pubblicano Vita e opinioni di Nello Scarpini, gentiluomo, a cui segue nel 2008 Villa Inferno, prodotto in collaborazione con Brian Ritchie, bassista dei Violent Femmes.

Ma è con Andate Tutti Affanculo (2009) che il gruppo si consacra come gruppo di riferimento nel panorama indie rock italiano, alternando allegre invettive (la copertina raffigura i 3 compenti davanti al Palazzo della civiltà italiana di Roma con in mano dei cartelli con su scritta la title track) ad un pesante black humor e sortite anticlericali, il tutto condito da atmosfere marcatamente punk.

Le tematiche sul qualunquismo, sul cattivismo dei tempi odierni e sulla natura umana si ritrovano e vengono approfondite, con sfumature diverse, nei successivi Nati per subire (2011), Canzoni contro la natura (2014), La terza guerra mondiale (2016) e Il fuoco in una stanza (2018).

Vincere e vinceremo!

A Sanremo giungono quindi tutt’altro che da sbarbati, ma dopo una ventennale carriera da battaglia e con la consapevolezza di portare i loro temi, che difficilmente troveranno ampio consenso. Come hanno ammesso, non disprezzano certo l’imbellettata cultura del festival: “Non credo di esser superiore, anche io guardo Sanremo / e come diceva Gandhi, vincere e vinceremo!”, si legge in una loro canzone di qualche anno fa (I qualunquisti).

«Al festival di solito si canta l’amore romantico, noi porteremo invece l’amore comunitario. […] La canzone non tratta d’amore né di politica, è una dichiarazione di intenti, di empatia verso gli altri», dicono. In tempi in cui la solidarietà umana è quasi criminalizzata e in un Sanremo che tenta di fagocitare culture musicali estranee (vedasi Motta, Negrita, Ex-Otago, Ghemon, Rancore) chissà che alla fine non possano aver ragione loro.


Ma per urlarti in faccia, che sei l’unica, sei il solo 
Sei l’unica, sei il solo.

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