Nelle sfumature del voodoo e nella dimensione in cui si esprime, c’è un mondo sommerso, feroce, negli occhi delle donne di colore che vediamo lungo le strade. Offrono il corpo riscattando l’anima; violenze e sopraffazioni sembrano essere il prezzo minore rispetto al terrore di essere legate ad una cultura che non concede alcuna autonomia. La tratta è un fenomeno che coinvolge giovani donne che, inseguendo un sogno, lasciano per strada brandelli di anima. Tale fenomeno è strettamente associato ai rituali voodoo (juju) e a tutto quel mondo che lega indissolubilmente credenze, paure, tradizione e pratica devozionale.

Un’identità etnica che costa cara

Le origini storico/geografiche del culto del voodoo sono rintracciabili nell’attuale stato del Benin ed esprime tutto il suo potenziale di “persuasione” tra gli schiavi, vittime di tratta; sostiene un senso di collettività messo a dura prova dai continui movimenti di deportazione con un conseguente indebolimento del senso di identità etnica. Sono numerosissimi i casi di ragazze nigeriane costrette alla prostituzione in seguito alla partecipazione forzata ad un rito woodoo, percepito come un vincolo di schiavitù. In realtà è facile percepirne le ambiguità che, attualmente, sostengono i feroci meccanismi della tratta.

Come sottolinea F. Couchard in Identitè culturelle, religion et pratique vauddou en Haiti: il vudù è “pilastro della cultura popolare, ma anche luogo di lacerazioni, di rotture, di scissioni della società”. Le evidenti contraddizioni mettono in profonda antitesi le origini del culto ed il suo attuale impiego strumentale. La sua valenza religiosa e di culto trova il suo più alto potenziale collettivo nel contenimento dei disagi sociali, quali epidemie, disgrazie, lutti, attraverso la realizzazione di una ritualità precisa che prevede offerte alle divinità e sacrifici; in tal caso, il woodoo assume una forte valenza terapeutica e protettiva tanto da essere largamente condiviso e tramandato attraverso studi e scuole private riconosciute dallo stato.

La storia di Arkoh, tra le maglie del voodoo e la feroce seduzione del sesso

Il potere del voodoo, snaturato della sua ancestrale essenza religiosa, diviene una gabbia mentale e psicologica da cui le ragazze coinvolte nella tratta non osano divincolarsi; l’inestricabilità di tali labirinti emotivi poggiano su un profondo senso di terrore e di soggezione psicologica che lega le vittime al loro destino in maniera indissolubile.

Arkoh è una giovane nigeriana con un mondo in bianco e nero negli occhi sfuggenti. Decide si parlarci in un italiano ricercato, quasi romanzato lasciando che ogni parola trovi il suo posto, senza invadere, senza alcuna inflessione vocale. Leggo nel suo sforzo di esprimersi al meglio, un rifiuto dolente delle sue scomode radici. Muove le mani in una sorta di rituale sottile, quasi impercettibile che si ripete in ogni movimento con un’eleganza sconcertante. Il suo corpo è interamente coperto di colori scuri sapientemente abbinati, ma sul suo esile collo si impone una cicatrice schiarita dal tempo che raggiunge il lobo dell’orecchio destro.  Si racconta senza inibizioni, ma si protegge con l’anonimato nell’aspetto e nell’identità.

Il canto triste di Arkoh

Arkoh  vuole cantarci una canzone, l’unico bagaglio sopravvissuto al suo viaggio insieme alla memoria che pesa come un macigno e ingombra senza possibilità di essere riposta in un cantuccio in attesa di essere ripresa, rielaborata, reintegrata nel suo vissuto. Ci intona le note di uno stornello che, nel suo paese, segnava il passaggio all’adolescenza, un antico passaggio di testimone che le donne anziane del villaggio donavano alle più giovani con l’orgoglio della conquista. Un traguardo mai scontato se poco prima di essere raggiunto le bambine, in attesa di essere donne, conquistavano il mero valore di circa seicento dinar libici e l’attenzione morbosa dei riti voodoo.

Arkoh  aveva ceduto all’ingenuità di un sogno lontano, oltre i confini minacciosi di una Libia che incombeva sul suo amaro destino. Un uomo dall’aspetto rassicurante e dalle mani curate la convince a seguirlo per raggiungere i colori sgargianti di un sogno in attesa. Arkoh  sorride, freme, fantastica un istante prima di rinunciare al suo nome, alla sua libertà, alla sua preziosa identità.

Arkoh, quell’uomo aveva scelto te, nei tuoi abiti laceri e nel tuo corpo ancora acerbo. Come ti sei sentita quando ti ha chiesto di lasciare il tuo villaggio per seguirlo?

Ero felice, ansiosa di trovare il mio posto nel mondo. Non avevo ambizioni precise, ero particolarmente abile nell’acconciare i capelli ed un gusto spiccato che mi rendeva un punto di riferimento delle donne del mio villaggio che volevano sentirsi più belle. Intrecciavo quei riccioli indomabili e coloravo il loro viso con i colori naturali della mia terra. Mi sarebbe piaciuto diventare un’estetista, conquistare una bellezza senza tempo e senza ombre.

Ti rattristava l’idea di non tornare più nel tuo mondo? Non temevi l’addio?

La speranza, a quell’età, è spesso accompagnata dall’ingenuità di avere controllo sulla tua vita ed il mondo in una tasca. Io ero molto fortunata, la mia infanzia era stata serena e la mia famiglia attenta a quello spiraglio di futuro che erano in grado di assicurarmi. Sapevo leggere e scrivere oltre a possedere il dono inestimabile della memoria degli anziani. Pensavo di ritornare più istruita, ricca e con abiti occidentali da donare alle mie amiche.

Quando hai capito che le lusinghe di quell’uomo si sarebbero rivelate le più meschine delle catene?

Non subito. Non era stato di parola e il sogno di raggiungere l’Europa sembrava sempre più lontano. Mi aveva condotto nella sua dimora, dove viveva con la sua anziana madre e un fratello più giovane con degli importarti problemi fisici. Mi sono offerta di aiutare nelle faccende domestiche e nella cura dell’orto che sembrava abbandonato da mesi.  Lui era distante, ma mai sgarbato. Ricambiava la mia buona volontà insegnandomi la lingua italiana e raccontandomi delle grandi città europee. Sono stata sua ospite per qualche mese, gli ero segretamente grata per non aver mai violato la mia purezza che avrei donato all’uomo del mio destino. Poi, senza alcuna ragione, il suo atteggiamento cambiò totalmente…

Racconta se vuoi…

Ha iniziato ad impormi dei vestiti volgari che lasciavano scoperte le gambe e mostravano il mio seno, mi costringeva a cospargermi di unguenti con odori troppo forti e mi portava in giro, per la strada, senza rivolgermi la parola. Si allontanava per parlare con degli sconosciuti, mi volgeva le spalle e non mi ha più guardata in viso. Un giorno uno degli uomini con cui parlava mi afferrò un braccio e mi trascinò con sé. Non reagii, capii immediatamente e quasi nello stesso istante accettai la mia sorte. Ero stata venduta per pochi dinar.

Come hai vissuto il tradimento?

In realtà già da un po’ di tempo avevo realizzato che mi attendeva una sorte scontata, come quella di molte mie coetanee e iniziai a costruire una corazza inviolabile intorno al mio cuore spezzato. Fui condotta in un angolo remoto di Agadez, un posto scuro e sudicio, pieno di donne dallo sguardo spento ed il corpo provato. In una stanza con un letto disfatto e maleodorante; lì persi la mia dignità e tutte le illusioni sopravvissute.

Per quanto tempo ti hanno trattenuta in quel posto?

Non saprei dirlo, il tempo e lo spazio si confondono, la memoria sfuma. Ricordo un periodo interminabile che può essere misurato dalle cicatrici che comparivano sul mio corpo. Ricordo che una notte sono stata svegliata da rumori insoliti che poco dopo hanno raggiunto il mio letto. Poche ore dopo ero in una prigione di Sebha, in Libia, insieme ad altre ragazze. So che è stato chiesto un riscatto alla mia famiglia e dopo giorni di torture indescrivibili, sono stata lasciata per strada quasi nuda.

Arkoh , te la senti di raccontarci di quei giorni in Libia?

Lei se la sente di ascoltare?

Non voglio forzarti, vorrei solo capire il perché tanta crudeltà gratuita…

Nessuno si fa domande, nessuno osa dare delle spiegazioni. Si accetta e di mette da parte senza dimenticare, quello a nessuno di noi è permesso. Dobbiamo ricordare, ogni giorno, ogni particolare. Sono stata costretta a mangiare i miei escrementi, unico cibo che mi era concesso e solo nei primi giorni perché poi ho smesso di…non mi faccia continuare … so solo che ero così debole da non provare dolore quando violavano ogni parte del mio corpo con oggetti metallici, pezzi di sedie rotte, mani sudicie.

Di sera riempivano le mia vagina di panni umidi e li lasciavano per tutta la notte e oltre. Mi riempivano di un liquido maleodorante finché non sentivo un peso insopportabile nel ventre. Mi costringevano e bere acqua sporca o le loro urine e poi mi fasciavano così stretta da impedirmi di urinare. Ho temuto di morire, ho sperato di morire.

A tutte era riservato lo stesso trattamento?

Ho visto cose peggiori di quelle che ho subito io. Non risparmiavano nessuno, neanche i bambini.

Quando sei uscita dalle prigioni libiche?

Come ti ho detto, non saprei; so solo che ci sono rimasta per troppo tempo. Quando mi hanno lasciato uscire, la mia illusione è durata pochi minuti o poche ore, quelle di una traversata lunga, quasi un sogno confuso di cui ricordo solo l’odore del mare. Quando raggiunsi l’Italia divenni carne e piacere per chi comprava il mio corpo per pochi spiccioli. Madame aveva pieno potere su di me e ogni notte ritornava il ricordo dei riti a cui ero legata e le minacce di morte e distruzione che incombevano sulla mia famiglia.

Deve essere stato molto difficile cambiare vita…il voodoo non perdona

Ho pagato un prezzo troppo caro, la mia famiglia si è sacrificata per me. Ho pensato di voler morire, tagliarmi la gola, ma dovevo tanto a mia sorella, le dovevo la vita e dovevo riprendermela. Mi sono fatta arrestare di proposito, ho raccontato tutto e la mia strada si è illuminata. Oggi sono libera nel corpo, ma la mia anima sanguina…il voodoo, una gabbia senza sbarre

Arkoh, capisco quanto sia stato difficile raccontare la tua storia e ti sono grata per avermi concesso l’accesso al tuo mondo perché tutti sappiano che ogni conquista nasconde la più atroce delle guerre interiori. Grazie ancora.

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